
Piero Marini con Giovanni Paolo II nel 2003 - Ansa
Ha conosciuto, per la prima volta, “da vicino” Karol Wojtyla (1920-2005) nel maggio 1973 quando il futuro Papa era cardinale arcivescovo di Cracovia. Ma soprattutto è stato al fianco di Giovanni Paolo II per 18 anni (1987-2005) come maestro delle celebrazioni liturgiche papali. E a 20 anni esatti dalla morte del suo «antico superiore» – che ricorrevano ieri – l’arcivescovo Piero Marini ricorda un tratto dal sapore unico e inconfondibile. «È stato per me un Papa dalla profonda e radicata fede mariana capace di pregare, non vergognandosene mai al cospetto degli altri, rimanendo per ore steso per terra o in ginocchio di fronte al Tabernacolo. E ha fatto del Concilio Vaticano II il programma del suo ministero petrino». Sono le prime istantanee che affiorano dai ricordi di Marini, oggi presidente emerito del Pontificio Comitato per i Congressi eucaristici internazionali, nel richiamare alla memoria il santo Papa polacco. «L’ho seguito come suo personale cerimoniere per 74 dei suoi 104 viaggi apostolici internazionali – racconta –. E già dal nostro primo incontro a Cracovia nel 1973 per le celebrazioni del patrono san Stanislao (1030-1079) rimasi colpito dalla sua umanità. Volle scegliere personalmente la stanza che mi aveva assegnato in episcopio. E mi disse: “Spero sia di suo gradimento”. Da Papa è rimasto uguale. Era un uomo di azione ma anche un mistico per il tempo che dedicava all’orazione. Non a caso aveva accarezzato l’idea di farsi frate carmelitano scalzo».
Monsignor Marini, classe 1942 e originario di Valverde (provincia di Pavia e oggi diocesi di Piacenza-Bobbio) risiede a pochi metri – all’interno della città leonina, il Vaticano per capirci – da Casa Santa Marta dove papa Francesco è tornato dopo il ricovero di 38 giorni al Policlinico Gemelli e dove sta trascorrendo la sua convalescenza. E annota a questo proposito un dettaglio: «Ho rivissuto seppur in modo diverso, con la stessa apprensione, le giornate di papa Wojtyla nel 2005 nello stesso ospedale. E ho scoperto in Giovanni Paolo II e Francesco la stessa forza e la medesima fragilità nell’affrontare la prova della malattia e della sofferenza». Lo sguardo di Marini corre verso il Conclave dell’ottobre 1978 che elesse il cardinale di Cracovia Vescovo di Roma. «Ero presente nella loggia delle benedizioni nella Basilica di San Pietro – spiega commosso – con il cardinale Pericle Felici quando il Papa venuto da lontano si affacciò e pronunciò la famosa frase: “Se mi sbaglio mi corrigerete”. Quelle parole conquistarono da subito la folla dei fedeli. E già da lì si comprese l’impronta del suo pontificato: puntare su una nuova evangelizzazione soprattutto della sua cara Europa». Un’eredità attuale, quella del Pontefice di Wadowice, non solo per la sua fedeltà al Vaticano II di cui fu padre conciliare per tutte e quattro le sessioni, a giudizio di Marini, ma anche per il suo amore verso la liturgia. «In ogni viaggio apostolico – è il racconto – ha sempre cercato con le Messe da lui presiedute di incontrare e rispettare le culture del luogo e di capire le ragioni di una fede spesso “semplice” di tanti popoli indigeni». E aggiunge: «In molti dei suoi documenti magisteriali non è un caso che abbia messo l’accento sull’importanza di radicare la liturgia nelle culture dei popoli». Marini nel suo Amarcord non dimentica il debito per la liturgia appresa alla scuola del Concilio «dal mio “maestro di sempre”, l’arcivescovo vincenziano Annibale Bugnini». Ovviamente il presule si sofferma sulle visite in tutto il mondo con «estenuanti» percorsi assieme al suo Papa definito «globetrotter della fede» nei suoi 27 anni di pontificato (1978-2005).
Dall’album dei ricordi Marini estrae alcune istantanee. «Non posso non ricordare il viaggio in Brasile del 1991 a São Luís, capitale dello Stato del Maranhão, dove si trovò accolto durante la liturgia di introduzione al Vangelo da belle ragazze che indossavano vesti di seta e con i loro movimenti corporali rendevano venerazione al Libro dei Vangeli. Quella coreografia fu ritenuta troppo “audace” per alcuni cardinali del seguito papale. Lapidaria fu la risposta di Wojtyla ripetuta tre volte: “Bello, bello, bello”». O ancora tornando indietro con l’orologio l’arcivescovo rievoca la tappa apostolica in Paraguay nel 1988. «In quel frangente, ad un certo punto, Giovanni Paolo II fu assalito da una folla di fedeli che lo voleva toccare e lo si vide materialmente “scappare”. Tutti volevano ascoltare la sua parola e stare in sintonia con i suoi gesti da grande attore quale egli era. Il Pontefice motivò quella sua fuga non prevista dal protocollo di sicurezza e dal cerimoniale (era pur sempre una visita di Stato!) con questa proverbiale battuta: “Ecco ora tutti sanno chi mette paura al Papa: le suore”».
Tra i fotogrammi Marini ne custodisce ancora uno: quello della visita al palazzo della Moneda di Santiago del Cile con il dittatore Augusto Pinochet nel 1987. «Con uno stratagemma il generale riuscì ad affacciarsi, rompendo le regole del protocollo, con papa Wojtyla. Fu un colpo sinistro. Un vero “colpo gobbo”. Ma Giovanni Paolo II, come ha raccontato in anni recenti il preparatore dei viaggi apostolici, il cardinale gesuita Roberto Tucci, riuscì a dominare e a governare la scena senza subirla nonostante l’applauso della folla». Tra i privilegi vissuti in prima persona dall’arcivescovo Marini, oggi ottantatreenne, vi è stato anche quello di aver ricevuto il 19 marzo 1998 («Ben 27 anni fa!») la sua ordinazione episcopale da parte di Giovanni Paolo II. Con lui tra i consacrandi in San Pietro vi erano due futuri porporati: il segretario personale di Wojtyla e poi arcivescovo di Cracovia, Stanislaw Dziwisz, e l’allora prefetto della Casa pontificia e oggi arciprete della Basilica papale di San Paolo fuori le Mura, lo statunitense James Michael Harvey. «Di quella celebrazione mi rimane ancora impressa nella mente il suo abbraccio indimenticabile dopo l’imposizione delle mani sul mio capo». Un’altra data appuntata tra i ricordi particolari del suo papa «Karol» vi è anche quella del 13 maggio 2000. «Volle rivedere per l’ultima volta la veggente di Fatima – è la rivelazione – la carmelitana suor Lucia dos Santos in Portogallo in occasione della beatificazione degli altri due testimoni delle apparizioni della Madonna del 1917, i due pastorelli Giacinto e Francesco. Mi colpì di quell’incontro a Fatima – a cui partecipai solo per la parte ufficiale – la figura minuta della suora con i suoi occhiali spessi. Come mi fece effetto il dialogo affettuoso tra i due segnato da “sì” e da “no” quando dovevano parlare in portoghese di quell’evento mariano di cui suor Lucia fu l’ultima testimone privilegiata».
Lo sguardo di Marini si rivolge all’ultimo incontro con Giovanni Paolo II prima della sua morte. «Era giovedì 31 marzo, due giorni prima della sua salita al cielo avvenuta alle 21.37 del 2 aprile – è la rievocazione commossa –. Fu il mio amico l’allora medico personale del Papa, l’archiatra pontificio Renato Buzzonetti, che mi disse: “Se vuoi salutarlo, è ora il momento”. E così feci. Fui accolto nell’appartamento pontificio. Giovanni Paolo faceva fatica a respirare; aveva le cannule in gola e non riusciva a parlare. Ma volle benedirmi e stringermi la mano per l’ultima volta. Quel suo ultimo saluto lo porto ancora con me. E ricordo che al suo capezzale gli sussurrai queste parole: “Padre Santo preghi per me e per la Chiesa”. Ci siamo guardati negli occhi e io gli ho dato una carezza sul viso». E rivela un dettaglio di quell’ultimo saluto: «È stato un Papa che non è voluto morire solo. Mi ricordo che era presente anche la psichiatra polacca Wanda Póltawska. Per lei malata di tumore nel 1962 l’allora vescovo ausiliare di Cracovia Wojtyla rivolse a Padre Pio le richieste di preghiera in favore dell’amica che poi guarì. Era una donna con un carattere di roccia, con modi diretti e con parole essenziali di fronte a qualsiasi interlocutore».
Il presule ritorna all’8 aprile di 20 anni fa quando lesse il testamento di Karol Wojtyla che appose sulla bara del Pontefice, proclamato santo nel 2014 da papa Francesco. «Fu un momento commovente – osserva – perché oltre ad apporre il rogito nel feretro misi il Rosario con cui si spense il Papa nel suo letto e la cui corona era solito sgranare ogni giorno per la recita dei misteri. Ricordo che per la prima volta per un Papa, secondo un’antica tradizione inglese e in accordo col suo segretario Dziwisz, posi sul volto di Wojtyla un velo di seta bianca. Fu quel gesto una novità assoluta nella storia dei riti esequiali per i Romani Pontefici». Quale ricordo infine? «La sua è stata una vita intessuta di una spiritualità pasquale. È stato un Pontefice che ha reso umana la figura del Papa. Prima di lui i Pontefici celebravano i riti pubblici solo per tre ricorrenze liturgiche in Vaticano: Natale, Pasqua e la solennità dei santi Pietro e Paolo. Come papa Francesco, è stato un Papa vicino alla gente. Colpiva come era attento ai dettagli delle biografie delle persone, spesso semplici, che si accostavano a lui. Amava incontrare tutti. Voleva che ogni vescovo che veniva a trovarlo nell’appartamento pontificio partecipasse all’Eucaristia da lui presieduta nella sua cappella privata e poi lo invitava a pranzo. Il suo lascito maggiore? Come il suo predecessore san Paolo VI, ha saputo traghettare una Chiesa indivisa nel post-Concilio. Per questo, secondo me, è stato un Papa così unico e speciale».